Il cuoco marchigiano che ha dedicato la sua vita alla campagna

È una questione privata quella che Michele Biagiola porta sui tavoli del Signore te ne ringrazi. Il ristorante si trova a Montecosaro, provincia di Macerata, cuore delle Marche. Ogni volta che si sente parlare di lui lo definiscono un cuoco vegetariano, ma Biagiola ci tiene a chiarire subito quanto non ami le tassonomie. Lui è onnivoro, punto, anche se da sempre la sua cucina più rappresentativa è sempre quella vegetale. “Cucino così perché ho deciso di cucinare come ritenevo giusto si dovesse fare”. 

Le sue parole sono imbevute della consapevolezza tipica di chi è cresciuto con dei nonni ex-mezzadri in giro per la casa. La mezzadria, un accordo tra una famiglia contadina e un proprietario terriero: l’impegno di lavorare la terra altrui e di corrispondere al padrone metà di tutti i frutti della campagna. Una gallina faceva sei uova? Tre e tre. Uno zappava e l’altro no. In quel mondo lo spreco era il più mortale dei peccati e ogni cosa prodotta in eccesso (e non destinata alla vendita) diventava occasione di condivisione e giorno di festa sul calendario. 

Biagiola cucina così: cercando di intendere il cibo così come lo vedeva fare alle sue nonne. 

Ed è da qui che viene un nome come Signore te ne ringrazi. Un nome che parla di provvidenza e spiritualità nel loro senso più ampio. Del mangiare quello che hai intorno riconoscendo la giusta velocità dei prodotti e rifiutando di forzarne il contesto che ne disegna la forma. Percepire ogni ingrediente come un qualcosa per cui vale la pena di essere grati verso qualcuno – decidete voi verso chi. 

Un’alimentazione basata sui vegetali è l’unica possibile se si decide di guardare il mondo con le lenti che Michele Biagiola ha messo davanti ai propri occhi.



“In campagna una volta non ci si chiedeva se alcune cose si potessero fare in altra maniera e in casa si mangiava quello che l’orto ti ridava indietro o che di selvatico si andava a raccogliere. Di proteine animali ce n’erano pochissime e pochissime se ne consumavano.” 

Inamovibile dalla carta è L’orto nel piatto: più che una portata sembra una fotografia. “L’idea è quella di raccontare ogni giorno, nel picco del turgore stagionale, l’attualità di quello che si è raccolto”. Fiori e foglioline, selvatico e coltivato, per comporre il dinamismo della natura nei suoi  mille contrasti quotidiani. 



Nessun romanticismo. La cucina del ristorante rifiuta tanto le semplificazioni di chi racconta la favola del “contadino felice” quanto le tesi di chi vede dietro le prassi agricole solo una vita colorata di miseria. È contadina, ancestrale e marchigiana. Orgogliosamente fondata sulla convinzione che se i nostri nonni mangiavano di stagione, a chilometro zero e quasi soltanto vegetale, lo facessero perché queste abitudini, sedimentate secolo dopo secolo, esprimevano una scelta etica, pragmatica e di profondo buon senso. 

Nel ristorante praticare questa tradizione vuol dire rifiutarsi di vedere il mondo con nostalgia. Credere che la famigliarità del gusto possa:da un lato rendere comprensibile la campagna anche a chi vive la città, e dall’altro tutelare la forma di un paesaggio agricolo sempre più a rischio.



“Negli ultimi sessanta-settant’anni la faccia delle colline che ho intorno a casa è stata stravolta. Produttori, cuochi e clienti di un ristorante fanno parte della stessa filiera e insieme partecipano alla costruzione del territorio. Su questo non si discute. Una scelta ne esclude sempre un’altra e decidere di mangiare secondo determinati schemi produce sempre un impatto sui luoghi dove quel cibo è stato prodotto.” 

Così gli Spaghetti all’arrabbiata di erbe diventano l’occasione per dare spazio alle tante erbe che di solito vengono calpestate nelle passeggiate di chi non conosce il tesoro che ha sotto i piedi. Studio del piccante vegetale in un percorso crescente che, correndo da sinistra a destra, cerca tra foglie di pepe e di nasturzio, il modo migliore per accompagnare i canonici peperoncino e pomodoro della ricetta. 



Biagiola non si sente un artista. Per lui mangiare deve rimanere un fatto quotidiano anche se seduti al tavolo di un ristorante. Dice che un cuoco non dovrebbe preoccuparsi di stupire il proprio commensale: “Mi son rotto i coglioni di sentir parlare di nota acidula o dell’elemento croccante. Non son queste le cose che rendono un piatto completo e bilanciato”. L’unica responsabilità che sente è verso il territorio dov’è nato e verso l’educazione che ha ricevuto. “Cucinare è prima di tutto un fatto di scelte coerenti”. 

Per questo il suo ramen è veramente mediterraneo: “L’Asia ho cercato di tenerla soltanto nell’ispirazione. L’obiettivo era stato quello di ricreare ogni nota della ricetta classica partendo da elementi autoctoni marchigiani.” L’umami viene da uno studio ossessivo intorno all’acqua di peperoni arrostiti e al posto di spaghetti nipponici ci sono capellini d’angelo nostrani. 

L’orto non può essere una moda. Non serve Instagram per capire l’importanza del selvatico in cucina. “Abbiamo una cultura popolare da riscoprire e dei produttori da sostenere. Tradizione è anche questo: sapere che una parte delle conoscenze dei nostri nonni sarà fondamentale anche per il nostro futuro”. 

Vivere la campagna significa credere nel verde; e quando schierarsi da una parte è l’unica cosa rimasta da fare sono proprio i cuochi come Biagiole a meritare gratitudine. Davvero, andrà a finire che mi toccherà ringraziare il signore pure sta volta.