La svolta vegetale dei migliori ristoranti del mondo

Cosa succede se il miglior ristorante al mondo diventa vegano? Cosa succede se, piano piano, tutti i migliori ristoranti al mondo diventano vegani, o comunque vegetariani, abbandonando progressivamente le proteine animali e incentrando la loro proposta sul mondo vegetale?

Questo non è più un teorico esercizio di stile, un what if da fare per immaginare le ricadute sulle abitudini dei consumatori, sulla filiera alimentare, sul mondo del fine dining e in generale della ristorazione. È di qualche giorno fa la notizia che l’Eleven Madison Park di New York riaprirà con un menu completamente vegano. Via carne, via pesce, via uova, via formaggi. Nel dimenticatoio alcuni dei piatti che hanno reso celebre il ristorante, come il torchon di foie gras, sciroppo d’acero e pain d’épices. O la tartare. O l’anatra alla lavanda. L’annuncio è stato dato dallo chef e proprietario Daniel Humm (che ha concluso la partnership con il cofondatore Will Guidara nel 2019) che ha detto che alla sua riapertura il 10 giugno, dopo la chiusura post-Covid, il ristorante diventerà 100% plant-based.

Quali ristoranti stanno diventando vegani?

Quella dell’Eleven Madison Park, tre stelle Michelin e miglior ristorante al mondo per i World’s 50 Best nel 2017, non è l’unica svolta vegetale nel mondo dell’alta cucina. Negli ultimi anni si moltiplicano le voci di coloro che, nelle parole di Humm, scelgono di “ridefinire il lusso come un’esperienza che serve a uno scopo più alto e mantiene una connessione genuina alla comunità. Siamo emozionati di condividere le incredibili possibilità di una cucina plant-based mentre approfondiamo la nostra connessione alle nostre case: la nostra città e il nostro pianeta.”

Restando negli Stati Uniti, nel 2019 Dominique Crenn ha tolto la carne da Atelier Crenn, il suo ristorante tre stelle Michelin a San Francisco. Quest’anno la Guida Michelin in Francia ha assegnato tre stelle Michelin al ristorante Ona, in Normandia, in cui la chef Claire Vallée propone solo menu degustazione completamente vegani. In Francia c’era un precursore eccellente: nel 2001 Alain Passard aveva creato un menu vegetale all’Arpège (sempre tre stelle) di Parigi. La scorsa estate il ristorante Geranium (anche in questo caso parliamo di tre stelle e fama mondiale) aveva creato un pop-up vegano, Angelika, in quella Copenaghen in cui da anni il Noma propone un menu vegetariano.

Piatti del pop-up Angelika del Geranium

La questione vegetale applicata al fine dining è ancora più complicata di quanto non sia già. Si può fare una cucina creativa, brillante, divertente e memorabile anche solo con i vegetali? Sì. Può essere un passo avanti dal punto di vista etico e ambientale? Sì, specialmente perché può dare ispirazione anche ai consumatori e agli altri ristoratori, pur essendo una nicchia. Può salvare il mondo uno chef stellato che decide di cucinare solo cose provenienti dal suo orto? Difficilmente.

La cucina vegana può costare uguale?

I dettagli del nuovo menu dell’Eleven Madison Park non sono ancora stati rivelati ma pare che il costo del percorso degustazione sarà 335 dollari a persona (più le mance, più i vini). Insomma, tagliare via la carne e il pesce non ha reso il ristorante più economico. E questo ovviamente apre la strada a diversi interrogativi.

Un piatto veg dell’Eleven Madison Park (anche in copertina)

Un ristorante plant-based può costare come un ristorante che non lo è? La mia risposta, se me lo chiedete, è sì. Ma non so se il pubblico meno attento a questioni ambientali è pronto a pagare centinaia di dollari per vedersi servire “solo” piatti a base di verdure, legumi, frutta, alghe, cereali. Un’ostrica della Normandia o un cucchiaio di caviale giustificano – anche solo psicologicamente – un prezzo alto finale. L’ingrediente di lusso scintilla sulla tavola rendendo più accettabile spendere cifre impegnative per una cena. Pagare 335 dollari vuol dire aprirsi all’idea che lo chef ti stia servendo prodotti sicuramente più economici e che si stia pagando soprattutto l’estro creativo, la bontà di un piatto e la piacevolezza complessiva dell’esperienza, certo meno misurabili del peso di un’aragosta del Maine.

Siamo pronti? Non lo so. Ma lo spero tanto.

Giorgia Cannarella

Bolognese per nascita e per scelta, vincitrice del premio miglior food writer per Identità Golose, scrive di cibo e tutto quello che gli ruota intorno