La lezione dei ristoratori danesi sulla sostenibilità

Quando si parla di sostenibilità il nostro pensiero va istintivamente alla Scandinavia. Dopotutto Greta Thunberg è nata lì, giusto? Pare che tutti usino la bicicletta. E poi è la patria dei mobili di e del pane con i semini. E forse il paese che più di tutti ci pare l’emblema della sostenibilità, del vivere e pensare green, è la Danimarca.

Il paese vanta una lunga tradizione di ricerca di soluzioni ecologiche e Copenaghen punta a diventare la prima capitale del mondo a emissioni zero entro il 2025, grazie ad esempio a piani di sviluppo urbano consapevoli, attenzione al consumo energetico e iniziative per la mobilità sostenibile. D’altronde la prima immagine che ci viene in mente quando pensiamo a Copenaghen sono proprio le biciclette, usate da 9 danesi su 100. La seconda immagine forse è legata a quello che è uno dei ristoranti più famosi al mondo: il Noma.

Lo chef Rene Redzepi è stato uno dei protagonisti del talk Sustainability and Beyond insieme ad altri due famosi chef di stanza nella capitale danese, Christian Puglisi e Kamilla Seidler Trebbien. Copenaghen è diventata una meta imprescindibile per gli appassionati di gastronomia, una mecca dell’alta ristorazione, anche passando attraverso il concetto di sostenibilità: ingredienti e tecniche di produzione locali, stagionalità, spreco zero.

Basti pensare che nel 1987 la Danimarca è stato il primo paese al mondo a introdurre una normativa sulla produzione di alimenti biologici. E quando nel 2020 la Guida Michelin ha creato una stella verde per premiare i ristoranti dalla filosofia green sono stati premiati ben 11 ristoranti danesi. Anche se per molti è stata un’operazione di letterale green washing per una guida che non ha mai fatto nulla per incentivare comportamenti “virtuosi” da parte dei ristoratori.

Un piatto del menu estivo del Noma

In effetti negli ultimi anni il tema della sostenibilità nella ristorazione è stato sfruttato, calpestato e stropicciato da guide del settore, associazioni di categoria e soprattutto dei ristoratori: chef che fino al giorno prima non facevano nemmeno la raccolta differenziata sono diventati paladini verdi. Fino al punto che la stessa parola sostenibilità si è svuotata di senso.

Proprio per questo è stato interessante sentir parlare tre chef che non si sono limitati a slogan vuoti ma, ognuno in modo diverso, hanno dato un contributo fondamentale al tema.
Redzeupi ha ricordato che all’inizio il Noma doveva essere un ristorante vegetariano e ha espresso in parole semplici un pensiero affatto scontato: “La sostenibilità deve prima di tutto essere deliziosa.” Un concetto che pare ignoto a buona parte dei ristoranti vegetali d’Italia, che spesso assomigliano ancora a buffet di papponi indefiniti, da consumare su tavoloni di legno mentre si ascoltano campane tibetane.

Puglisi ha chiuso l’anno scorso il suo ristorante stellato Relæ, ma continua a gestire diversi locali a Copenaghen, i cui prodotti provengono dalla Farm of Ideas, un progetto di agricoltura sostenibile nella campagna danese. Per lui questo periodo di crisi appena attraversato è stato “un’opportunità. Ci ha fatto capire che alcuni problemi sono globali, e vanno risolti in modo globale. Penso ad esempio al cambiamento climatico. Sostenibilità significa tante cose, come la riduzione del food waste, ma anche la consapevolezza di dove viene il tuo cibo, che è quello su cui noi abbiamo cercato di lavorare.”

Ma l’intervento più significativo è stato quello di Seidler. Dopo aver lavorato a Copenaghen ha contribuito all’apertura Gustu, in Bolivia, un progetto farm (o meglio forest) to table che non era mai stato tentato prima nel paese sudamericano. E proprio per questo si sente di dire che “Il concetto di sostenibilità ha un diverso aspetto in diverse parti del mondo.” Forse la vera lezione danese sulla sostenibilità è quella. Non dobbiamo copiare altri paesi e quello che loro hanno fatto per rendere i propri ristoranti più sostenibili: dobbiamo trovare la via italiana per riuscire a sprecare meno, rispettare più la stagionalità, migliorare la filiera alimentare e ridurre il consumo energetico. Se loro ce l’hanno fatta, possiamo farcela anche noi.