Per decenni l’alta cucina ha raccontato il lusso attraverso foie gras, wagyu, caviale e tagli pregiati. Ma oggi, in un mondo che cambia velocemente e che chiede con forza un nuovo patto con la natura, sempre più chef stellati si domandano: la grande cucina ha ancora davvero bisogno della carne?
Il caso che più ha fatto discutere è quello di Alain Passard, eggenda della gastronomia francese, citato in questi giorni dal Gambero Rosso. Leggenda della gastronomia francese, il suo Arpège, ristorante parigino tristellato, ha annunciato un menu quasi completamente vegetale, eliminando carne, pesce e latticini. Un passo che non arriva come provocazione, ma come approdo naturale di un percorso iniziato nei primi anni Duemila, quando Passard decise di dire addio alla carne rossa. Oggi lo chef parla della sua cucina come di un’arte vicina alla pittura o al cucito, fatta di emozioni e leggerezza. L’unico legame rimasto con il mondo animale è il miele delle arnie che circondano il ristorante. Tutto il resto nasce dai suoi tre orti biodinamici, che riforniscono ogni giorno la cucina con verdure, fiori ed erbe aromatiche.
Non si tratta di un caso isolato. In Francia, ONA, il primo ristorante vegano a conquistare una stella Michelin, ha aperto la strada a un approccio radicale e coerente. Nel Regno Unito, The Harwood Arms ha sorpreso tutti proponendo piatti di “carne” vegetale all’interno di un menu stellato. E a New York, l’Eleven Madison Park, uno dei ristoranti più celebri al mondo, ha scelto nel 2021 di diventare interamente vegano, salvo poi reintrodurre alcune proteine animali per ampliare le possibilità creative. Questi percorsi, diversi tra loro, raccontano però una stessa tensione: la necessità di confrontarsi con il futuro della tavola e con le richieste di un pubblico più attento, curioso e sensibile alle questioni ambientali.

Anche in Italia, la direzione è chiara. Basti pensare a Joia, il ristorante milanese di Pietro Leemann, che già negli anni Novanta conquistava la stella Michelin con una cucina completamente vegetariana, pionieristica e poetica. Oppure a progetti come Venissa, a Venezia, dove erbe spontanee e ortaggi locali diventano protagonisti di una cucina che rifiuta plastica e carne in nome di un approccio “ambientale”. In Calabria, il ristorante Dattilo ha costruito la sua identità a partire da ingredienti biologici coltivati direttamente in azienda, mentre a Milano Innocenti Evasioni ha trasformato il proprio orto urbano in un laboratorio gastronomico che unisce biodiversità e creatività. E Erba Brusca a Milano, un’istituzione in cui tutti i menu degustazione sono studiati per utilizzare una buona dose di verdure dell’orto del ristorante.
Queste scelte non sono semplici mode. Hanno a che fare con eticità, sostenibilità e identità culturale. La carne, simbolo di abbondanza e status sociale per secoli, oggi si carica di un peso diverso: quello dell’impatto ambientale, delle emissioni, del consumo d’acqua e di suolo. Ridurla o sostituirla non significa rinunciare al gusto, ma ridefinirlo. Nei piatti vegetali degli chef contemporanei, una carota può diventare un mosaico cromatico, una melanzana flambé può sorprendere quanto un filetto, un mélange di cavoli e scalogni può raccontare la stessa profondità di un fondo di carne, ma con un linguaggio nuovo.
È chiaro che non tutti i ristoranti stellati hanno deciso di abbandonare completamente la carne, e probabilmente non accadrà mai. La varietà resta un valore della cucina d’autore. Ma la direzione intrapresa da molti grandi chef segnala un cambiamento culturale: oggi l’eccellenza può esprimersi anche — e forse soprattutto — senza proteine animali.
In un mondo che chiede concretezza di fronte alla crisi climatica, l’alta cucina non può limitarsi a essere spettacolo estetico: deve farsi portatrice di messaggi e visioni. E il messaggio che arriva da Arpège, da Joia, da Venissa e da tanti altri templi del gusto è chiaro: non serve carne per fare grande cucina. Serve consapevolezza, creatività e un rapporto più autentico con la terra.
Forse, allora, la domanda non è se l’alta cucina abbia ancora bisogno della carne. Ma se noi, come pubblico e come comunità, abbiamo ancora bisogno che sia la carne a definire cosa significa “lusso” a tavola.