Questo trattato cinquecentesco sull’insalata è uno spasso (ma utile)

Qualche settimana fa ho detto a una persona che avrei iniziato a scrivere in una rivista che parla di cultura vegetale. Lei per tutta risposta si è messa a ridere e mi ha risposto così: “beh, ma quindi de che parli? De insalata?”. 

Si guarda, parlo anche di insalata, e adesso ti becchi pure il me passivo-aggressivo che tira in ballo le insalate del Rinascimento.

Del’insalata: il libro e altre piante commestibili

Tutto nasce da un trattatello in forma epistolare del cinquecento che ho in casa da qualche anno e che, grazie all’amico di cui sopra, ho trovato la voglia di affrontare: Del’insalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo del’homo. L’autore è Costanzo Felici da Piobbico, un medico-naturalista vissuto tra Piobbico (provincia di Urbino) e Rimini, nato nel 1525 e morto nel 1585.  Il Felici in buona sostanza cerca di raccogliere in un corpus tutte le informazioni in suo possesso intorno ai cibi di origine vegetale più comuni al suo tempo, e lo fa per rispondere alle lettere che il suo amico Ulisse Aldrovandi, il più importante naturalista del tempo, spesso gli mandava, in cerca di informazioni per la stesura delle sue opere. 

Ne risulta un mischiaticcio, tutto sommato fruibile, di riferimenti a classici greco-romani e consuetudini rurali principalmente marchigiane. Insomma i trattati che piacciono a noi.

Nell’opera c’è anche spazio per alcune voci dedicate a cibi esotici provenienti dalle Americhe e dalle “Indie orientali” cui, dice l’autore, son dediti “i ghiotti et avidi delle cose nove”. Così, nel capitolo dedicato ai frutti che crescono dalle piante di terra, c’è anche il pomodoro, chiamato pomo del Perù e giudicato dall’autore: “più presto bello che buono”. Allo stesso modo, nel capitolo sulle radici, si parla del gengevo (zenzero), asserendo che in alcune zone dell’India questo venisse tritato finemente e aggiunto ad altre erbe fresche poi mangiate con “aceto, olio e sale, che altro non è che la nostra insalata”, dimostrando una visione del mondo ben più ampia di quella che ci si aspetterebbe da un marchigiano che vive ai piedi dell’Appennino a metà del millecinquecento.

Insomma, questa è sia l’opera di un curioso che sa come guardare quello che gli viene messo in tavola, che il punto di vista di uno scienziato vissuto in piena rivoluzione Galileiana. 

Sì ma nel Cinquecento l’insalata si mangiava?

Iniziamo dal nome: cosa si intendeva con la parola “insalata” mezzo secolo dopo la scoperta dell’America?  Per prima cosa viene chiarito che un’insalata, più che un piatto composto da “un’herba o più miste insieme”, è innanzi tutto qualcosa di condito con olio, sale e aceto. Indifferente che sia roba cruda o cotta e altrettanto superfluo è che sia di soli vegetali. 

Dice poi che insalata “è nome de’ Italiani solamente e che i latini, pur dando anche loro il nome al piatto partendo dal condimento, erano soliti chiamare questa preparazione ‘acetarium’; e così pure i greci ‘oxybafa’, cioè cose composte et condite con aceto”. Dopo un paio di pagine inzuppate di voli pindarici il Felici chiude l’argomento con un proverbio che ricordo d’aver sentito dire anche a mia nonna: “l’insalata ben salata, poco aceto e ben oliata”.  Poco importa l’origine del nome, ma sta di fatto che era proprio il condimento la parte più preziosa di un’insalata, facile quindi che ne potesse nobilitare anche il nome. 

Nel libro Del’Insalata si domanda anche in che momento del pasto sia meglio mangiarla. Riporta Costanzo: c’è chi sostiene che durante la quaresima, i quaranta giorni prima della Pasqua in cui era proibito il consumo di carne, fosse buon costume mangiare l’insalata al mattino perché “si rimedia alla grossezza del’humore et al gusto fastidito (…) generati da’ cibi grossi che si magnano ordinariamente a quei tempi”.

In pratica dice che, mangiando molte verdure nei giorni di magro, le persone erano piene di gas da buttare fuori. Si pensava che dopo il sonno i troppi umori – quel buffo concetto rimasto in voga per diversi secoli – ascendessero verso la bocca provocando disturbi di stomaco e nausea ma, mangiando cibi acetosi già dal mattino, questi sarebbero stati “incisi e assottigliati”, diventando quindi “più atti alla digestione et alla expulsione.” In pratica mangiare insalata al mattino fa uscire del gas. Non possiamo che ammirare la praticità.

Riporta poi anche la pratica di chi sceglie di mangiare insalata prima dei pasti, ribadendo come questa aumenti l’appetito, ma subito chiarisce citando un’aforisma di Ippocrate tradotto in latino: “ubi fames, laborandum non est”. Dice insomma che: si, l’insalata mette appetito, ma che questo andrebbe ricercato solo se non dovesse esserci, e cercare di aumentarlo quando si è in buona salute è pratica da ghiottoni, e quindi ogni bravo medico lo sconsiglierebbe. “Ogni troppo è vitioso”. 

Come cambiano le verdure nel tempo

Segue l’elenco delle verdure registrate dall’autore. Ogni vegetale viene presentato in un blocco assieme ad altri a lui simili: c’è il capitolo sulle radici, quello sulle foglie; sui frutti e sui germogli. Ogni famiglia è descritta partendo dalle specie più diffuse e chiusa da quelle esotiche e lontane. 

Gli spunti sono tantissimi, si parla di erbe aromatiche, di mitologia e di tanto altro. Se la cosa vi incuriosisce, cercate l’edizione del 1986 curata da Guido Arbizzoni; in qualche biblioteca si trova di sicuro. 

È buffo leggere di come certi ingredienti venissero visti cinque secoli fa. La gente imparava a nuotare legandosi sulla schiena zucche secche come galleggianti, i più erano convinti anche allora che la lattuga fosse la regina delle verdure da mangiar crude e il rosmarino si metteva spesso nelle insalate per “nettare gli denti”. 

Insomma, una ricetta per l’insalata non c’è oggi ne c’era al tempo di Galileo, ognuno sceglieva come preparare l’insalata che preferiva. Bastava che fosse ben salata. Costanzo Felici assicura che agli italiani l’insalata sia sempre piaciuta molto e racconta che gli oltramontani (i francesi) eran soliti schernirli dicendo che “ghiotti (…) hanno tolta la vivanda agl’animali bruti che si magnano l’herbe crude”. Antipatici pure loro, non sanno che si son persi.