Con lo Chef Kumalè alla scoperta dei sapori e dei saperi ortofrutticoli del mondo

chef Kumalé
chef Kumalé

Se volete andare d’accordo con lui, non chiamatela cucina etnica ma world food –  cibo dal mondo –  di cui è uno dei massimi esperti italiani. Vittorio Castellani aka Chef Kumalè, noto anche come il Gastronomade, è un giornalista freelance, food writer, food designer, consulente e formatore presso importanti istituti, come lo Iulm, la Scuola Politecnica di Design di Milano, il Gambero Rosso Academy e l’Italian Culinary Institute for Foreigners di Costiglione d’Asti, per citarne solo alcuni.

«Il nickname Chef Kumalè risale al 1991 ed è stato scelto per condurre la trasmissione radiofonica “The Couscous Clan”, sulle frequenze di Radio Flash a Torino (Popolare Network)», precisa Vittorio Castellani. «Quanto al termine gastronomade, è stato coniato dal maggiore dei miei tre figli: dovendo spiegare in un tema scolastico che lavoro facevo, scrisse: “mio padre è uno che viaggia, scrive, organizza e cucina cibi del mondo: è un gastronomade”. Nessuno avrebbe potuto dare una definizione migliore della grande passione che nutro per il viaggio, la gastronomia e le culture dei popoli…».

 

La visione dello Chef Kumalè è profondamente multietnica, inclusiva, come testimoniano i tanti progetti di accoglienza e sostegno sociale portati avanti negli anni in favore di rifugiati, richiedenti asilo, carcerati, disoccupati e donne vittime della tratta. Due esempi su tutti: gli incontri “Nati per soffriggere” e “Parole in pentola” con gli ospiti dei centri di accoglienza, in cui la gastronomia diventa un mezzo per comunicare, per creare un ponte tra le culture. «La cucina, a ben guardare, è profondamente “bastarda” e indisciplinata: quello che siamo, quello che mangiamo è il frutto di millenni di contaminazioni, di scambi tra popoli e trasferimento di sapori e saperi».

 

In tutto questo, che ruolo hanno frutta e verdura?

«Dipende dal parallelo e dal meridiano a cui ci si trova! Restando in Europa, i Paesi balcanici e dell’ex Unione Sovietica hanno una tradizione decisamente “carnivora”, mentre l’Italia e in generale la fascia mediterranea privilegia i prodotti ortofrutticoli, che rappresentano la base della piramide alimentare». Ma lo sguardo va diretto soprattutto fuori dal Vecchio Mondo. «In alcuni continenti – penso soprattutto all’Asia, al Sud America e all’Africa – la frutta e i vegetali fanno la parte del leone. Si tratta di zone per molti aspetti ancora sottosviluppate, con un’economia di tipo rurale, in cui le proteine di origine animale sono meno diffuse. Il motivo è semplice: gli animali sono considerati mezzi agricoli, aiutano nei campi, e vengono inseriti solo sporadicamente nell’alimentazione».

 

Proviamo ad entrare nel dettaglio.

«Partiamo dal Centrosud America. Paesi come il Brasile, il Perù e l’area del Caribe, ad esempio, vantano una straordinaria ricchezza di frutta cosiddetta esotica, ovvero tropicale. Di recente sono stato a Santo Domingo, che per il secondo anno consecutivo è stata insignita del titolo di “capitale della cultura gastronomica dei Caraibi” dalle prestigiose Accademia ispanoamericana della gastronomia e Accademia reale spagnola. La cucina locale è un mix di tradizioni che affondano le radici nel patrimonio di tre culture diverse: in primis quella degli indigeni nativi tainos, poi ovviamente quella dei conquistadores spagnoli e infine quella dei libertos, gli schiavi afro-americani liberati da Haiti». I frutti più diffusi? «Con i platanos di origine africana si prepara il mofongo: un purè di banana, che viene lavorata al mortaio e servita in diverse varianti, mentre il latte di cocco è alla base di moltissimi piatti di carne e di pesce, a cominciare  dal pollo e dai gamberi».

 

Chef Kumalè
Ph.M.DOttavio

 

Un discorso simile vale per il Sudest asiatico.

«Lì il pasto è composto perlopiù di verdure, che accompagnano il riso: insieme rappresentano le principali fonti di sostentamento per la popolazione. La famiglia più diffusa è senza dubbio quella delle brassicaceae o crucifere, che piano piano si stanno diffondendo anche da noi. Sto scrivendo un libro proprio sui vegetali e gli ortaggi asiatici e ho scoperto che in Pianura Padana sono coltivate ben 111 specie! E che dire delle radici di loto che crescono all’altezza dei laghi lombardi?».

 

Il discorso ha poi risvolti salutistici e religiosi.

«Si pensi all’India e ai suoi precetti alimentari legati al Buddhismo e all’Induismo. Quest’ultimo, in particolare considera sacra ogni forma di vita e implica il vegetarianesimo che, seppur non imposto, è considerato una pratica positiva anche dai buddisti. Va poi detto che in India, come in Cina, i vegetali sono utilizzati non tanto per il sapore che apportano quanto per la loro funzione curativa e preventiva, come insegnano la tradizione ayurvedica e la medicina cinese. Oggi alcuni di queste verdure iniziano a trovare spazio anche in Italia, come il bitter melon, una specie di cetriolino amaro, e i pak choi, i cavoli cinesi».

 

Il fenomeno della “contaminazione” è globale, ma certamente non nuovo.

«Cinquecento anni fa succedeva lo stesso con Cristoforo Colombo e i conquistadores, che tornavano in Europa con molti esemplari di frutta e verdura del Nuovo Mondo. Oggi parliamo dei “pomodori di Pachino”, ma come tutti sanno si tratta di un ortaggio originario del Messico…». Per il Gastronomade la questione è tutta in questi termini: «Circolano le merci, ma non circola la cultura legata ai popoli nativi, un po’ come succedeva durante il colonialismo. Compriamo i prodotti, ma non sappiamo come utilizzarli in cucina, non conosciamo gli abbinamenti codificati da chi quei prodotti li coltiva da secoli, se non da millenni». C’è un grande gap da colmare in termini di studio e di comunicazione. «Gli spagnoli e i francesi sono molto più avanti di noi italiani: questo clima di isolamento è destinato a non portarci da nessuna parte».

 

Playa Blanca Appetizer di gamberi e zucchine
Playa Blanca Appetizer di gamberi e zucchine

E gli chef?

«Chi ha viaggiato per lavoro, ha compiuto esperienze internazionali e ha una mentalità aperta, spesso sceglie di includere nel suo staff stagisti e tirocinanti di altri Paesi, dando vita a una “propagazione culturale” di tecniche e conoscenze della materia prima. Si pensi alla moda del kimchi (una preparazione tipica coreana a base di foglie di cavolo cinese, che vengono fermentate insieme a numerosi altri odori e ingredienti), proposta da un numero sempre maggiore di cuochi stellati e con ambizioni gourmet. E poi c’è tutto il filone delle coppie miste – dietro ai fornelli dei ristoranti come nelle case – che creano nuove cucine di frontiera, ancora tutte da scoprire».

Jessica Bordoni

Milanese giramondo, giornalista professionista dal 2015. Scrive di food&wine su varie testate, tra cui Civiltà del bere, Il Giornale e Le Guide di Repubblica.