Un tempo erano i comunisti a “mangiare i bambini”. Oggi, il bersaglio preferito sono i vegani: bollati come “nazivegani”, moralisti, cagionevoli, incapaci di godersi la vita. Un repertorio di cliché che ha un nome preciso: vegafobia. A smontarne logiche e contraddizioni è Dario Martinelli, professore universitario e autore del saggio provocatorio Anche Hitler era vegano (Mimesis Edizioni, 2025). Tra ironia e rigore, Martinelli esplora i pregiudizi che ancora accompagnano il veganismo e invita a guardare oltre la caricatura, per leggere questa scelta come atto culturale ed etico. Lo abbiamo intervistato per capire come combattere stereotipi e demagogia.

Intervista a Dario Martinelli
Che cos’è la vegafobia, e qual è (tra i gruppi che categorizza nel libro) la categoria che ritieni più odiosa?
“Phóbos” in greco antico significa “paura, repulsione”, e lo usiamo oggi in tante parole che descrivono forme di discriminazione verso categorie in genere minoritarie e/o svantaggiate: omofobia, xenofobia, grassofobia… Dunque per “vegafobia” si intendono i vari modi in cui la nostra società, a stragrande maggioranza carnista, deride, offende o discrimina vegani, vegetariani e altre simili declinazioni. Nel libro faccio riferimento a 13 categorie di vegafobici, e devo dire che nel tempo (sono vegetariano dal 1994 e vegano dal 2016) i miei livelli di antipatia per questa o quella categoria sono cambiati, a seconda di vari fattori. Forse, in questa fase, faccio sempre più fatica a digerire i “finti amici”, quelli che ti dicono che loro “vorrebbero tanto ma”, o che di carne ne mangiano davvero pochissima, e in genere te lo dicono a cena proprio mentre la stanno mangiando.
Il veg*ismo, dunque, non è solo appannaggio delle persone buone?
Beh, il riferimento a Hitler nel titolo è volutamente provocatorio, e il mito dell’Hitler vegetariano viene smontato pezzo per pezzo nel libro, ma – detto questo – non v’è dubbio che non è necessario essere dei santi per adottare questo stile di vita. Come qualunque altro stile di vita “virtuoso”. Per dire: Madre Teresa di Calcutta ha fondato le Missionarie della Carità, assistito poveri e malati, ma è anche una figura controversa per le condizioni precarie nelle sue case di assistenza, per la vicinanza a dittatori e per una concezione del dolore molto severa (alcuni l’accusarono di “santificare la sofferenza” più che alleviarla). Insomma: parlare di comportamenti virtuosi ha molto più senso che parlare di persone virtuose. Le persone, specie nel contesto di una specie così imperfetta e cialtrona come l’Homo sapiens, sono sempre un insieme di contraddizioni, e i vegani non fanno differenza. Ma, ripeto, nello specifico di Hitler, si tratta di un mito che i carnisti utilizzano a ripetizione per attaccare il veganismo. Hitler è stato vegetariano solo per tre anni della sua vita (e probabilmente nemmeno in modo rigoroso), e non lo ha fatto per ragioni etiche, ma per problemi gastrointestinali.

Nel tuo libro smonti molti stereotipi sulla cultura vegana: qual è, secondo te, il pregiudizio più duro a morire?
Ce n’è più di uno. Una delle caratteristiche principali della vegafobia è proprio l’aspetto diffamatorio: una costante macchina del fango che crea un’immagine molto distorta dei vegani. Di volta in volta vengono definiti tristi, bacchettoni, incapaci di godersi la vita, effemminati, rompiballe, deboli fisicamente… Fino a qualche annetto fa ti avrei detto che il pregiudizio più tosto era proprio quello della debolezza fisica e atletica, però la diffusione sempre più capillare di atleti vegani di livello mondiale (penso a Hamilton nella Formula 1, Djokovic nel tennis, Aguero nel calcio…) sta un po’ abbattendo questo mito. Forse il pregiudizio più pernicioso, alla fine dei conti, è quello che provoca la cosiddetta “do-gooder derogation”, la diffamazione verso chi fa del bene. I vegani sono sempre accusati di porsi presuntuosamente su un piedistallo morale e di fare la predica a tutti. Io però inviterei a ribaltare la questione: è davvero il vegano che si “innalza” sul piedistallo, o piuttosto il carnista che si abbassa, cercando subito di buttarla in caciara? I presupposti etici di una scelta come il veganismo (o, chessò, il femminismo, l’antirazzismo, il pacifismo…) dovrebbero sempre essere il punto di partenza di una conversazione, non qualcosa cui si arriva erigendosi su un fantomatico piedistallo.
Faccio un esempio: se si parla di femminismo, il punto di partenza dovrebbero essere i dati sulla disparità di genere, sulla violenza verso le donne, sui femminicidi. Da lì bisogna partire, non è che ci si arriva attraverso femministe incazzate e presuntuose. Invece è chi banalizza il discorso (“le donne sono troppo emotive”, “e la violenza contro gli uomini dove la mettiamo?”) o colpevolizza le vittime di violenza (“se l’è cercata”, “non ha denunciato subito”) che moralmente si abbassa, e direi pure che si mette a scavare. Altrettanto dicasi per il veganismo. Un dato su tutti: solo per carne e pesce, gli esseri umani uccidono circa 6000 animali al secondo. Al secondo! Non è ergersi su un piedistallo se si parla di questo.

Il futuro è vegano?
Spero di sì, e in parte lo credo. Se si interpreta la storia della civiltà come un progressivo allargamento dei diritti e dell’empatia, notiamo che siamo partiti da società con gruppi privilegiati ristrettissimi e a poco a poco ci siamo aperti a sempre più categorie. Ai tempi di Aristotele si parlava della cosiddetta “Scala naturae”, una gerarchia che vedeva al vertice gli esseri umani liberi di sesso maschile, mentre donne, schiavi e animali non umani stavano sotto. La schiavitù è stata legale e moralmente accettabile fino a fine XIX secolo, le donne non hanno potuto votare fino all’inizio del XX secolo, l’omosessualità è stata rimossa dalla lista dei disturbi mentali sono negli anni Settanta… e così via. L’essere umano ci mette sempre tantissimo tempo a capire quanto danno fa al pianeta e a chi vi abita (anche quando appartiene alla sua stessa specie), ma prima o poi ci arriva e qualcosa, seppur faticosamente, cambia. Ora – non so come e non so quando – ma prima o poi ci accorgeremo dell’inaudita violenza che mangiando carne perpetriamo verso l’ambiente e verso gli altri animali, e qualcosa faremo per porvi rimedio. Un dato incoraggiante è che il numero di vegani e vegetariani nel mondo è sempre in aumento, non ha mai conosciuto cali come invece succede a tante mode alimentari non sostanziate dal punto di vista etico.
Nutrirsi di carne è un modo di vivere rispettabile quanto gli altri, oppure lo è alla stregua di non fare la raccolta differenziata?
Sono contento che mi hai chiesto del “nutrirsi di carne” e non di “chi si nutre di carne”, cioè, come dicevamo prima, ponendo l’accento sul comportamento e non sulle persone. Perché in questo caso posso rispondere tranquillamente che no, nutrirsi di carne non è un modo di vivere rispettabile, ma anche che questo non significa che chi mangia carne non sia una persona rispettabile. Questa differenza è importante, perché sia i vegani che i carnisti commettono l’errore narcisista di personalizzare lo scontro, e cioè di trasformare un argomento così importante in una battaglia tra individui che liberamente scelgono se mangiare una cosa oppure no. Non è così. Il campo di battaglia, se battaglia la si vuol chiamare, è l’impatto della carne sugli animali e sull’ambiente – ed è un impatto pesantissimo. Questa è la cosa che non si può rispettare e che bisogna cambiare nella società. Le persone in quanto tali, invece, sono sempre e tutte imperfette: chi è senza peccato scagli la prima pietra.” Contenuto utile per l’intro (ricordati il solito tone of voice fresco, divulgativo, mai banale): Un tempo erano i comunisti a “mangiare i bambini”. Oggi, invece, tra le categorie maggiormente demonizzate ci sono i vegani. Nazivegano, radical chic, moralista, cagionevole di salute.
Chi rinuncia ai cibi di derivazione animale è un costante bersaglio di offese e di pregiudizi più o meno strampalati. Si chiama “vegafobia”, termine coniato nel 2011 che combina tutte le forme di rappresentazione spregiativa dei vegani e del veganismo. Ma da cosa nasce questa avversione? Quali sono i motivi profondi? Questo saggio intende approfondire la vegafobia da un punto di vista socio-psicologico, è un invito ai “carnisti” a guardarsi dentro e ad affrontare l’irrazionale e il senso di colpa. Ma lo sai che anche Hitler era vegano? È il livello massimo di questa retorica che si crede arguta ed è solo ridicola. Anche Hitler era vegano è il geniale titolo di un libro scritto da Dario Martinelli (Mimesis edizioni), professore universitario che delle relazioni tra umani e altri animali, della loro percezione e comunicazione, ha fatto l’oggetto dei propri studi. Il libro riesce nel difficile compito di essere da un lato leggibile, leggero, divertente perché polemico, e dall’altro ampio, profondo ed esauriente. L’oggetto è quello che l’autore chiama “vegafobia”, cioè l’ostilità programmatica e ideologica verso chi fa scelte alimentari vegane e vegetariane, che al pari delle simili omofobia, xenofobia ecc. non è che un accrocchio di stereotipi, opinioni preconfezionate e frasi fatte.