Il vertical farming è davvero la nuova frontiera dell’agricoltura?

Apre nei sobborghi di Copenaghen (Danimarca) Nordic Harvest, la più grande vertical farm indoor d’Europa. Conta 14 livelli di scaffalature e si sviluppa su un suolo di 7000 mq che permetteranno la produzione di all’incirca 1000 tonnellate di verdura ogni anno. È l’ultima frontiera del vertical farming, un fenomeno mondiale che fa parlare di sé già da una decina di anni. Già nel 2010 la Global Market Insights prevedeva per le vertical farm un mercato da 22 miliardi di dollari entro il 2026. 


La storia del vertical farming in Italia

Le prime fattorie verticali sono state costruite all’inizio degli anni 2000 e in principio avevano un carattere prettamente sperimentale, a differenza di quelle commerciali di oggi: vere e proprie filiere agroalimentari, in grado di seguire il processo di produzione, trasformazione e vendita. La prima realtà italiana a realizzare un progetto di questo tipo è stata l’ENEA (Agenzia Nazionale per le Nuove Tecnologie ed Energia) quando all’Expo 2015 di Milano presenta la prima serra verticale italiana da destinare all’agricoltura biologica.

Ad oggi tra le molteplici start-up italiane che più si stanno facendo notare ci sono Planet Farms, nata nel 2018, che a breve potrà partire con il lancio commerciale, e Agricola Moderna, già presente su canali distributivi come Carrefour e Cortilia.  
Spesso definite “fabbriche di insalata”, le Vertical Farms indicano un’agricoltura verticale, ovvero su più livelli sovrapposti, di piante commestibili. Tutto avviene in ambienti chiusi, costantemente controllati e indipendenti; gli ortaggi sono coltivati fuori suolo e a ciclo chiuso; le radici si estendono quindi in un substrato inerte (o in aria) e il nutrimento in eccesso viene recuperato e reintegrato nel circuito. 

Come funziona il vertical farming?

L’obiettivo primario di queste pratiche colturali è di massimizzare il numero di piante che possono essere coltivate nel volume di un metro cubo, minimizzando lo spreco di acqua. Oggi si è arrivati a un 90% di risparmio idrico rispetto all’agricoltura tradizionale e, com’è facile intuire, non è poco.
La tecnica di coltivazione fuori suolo è chiamata coltivazione idroponica. A sua volta si divide in diverse categorie/modalità e una di queste è l’aeroponica: una coltivazione dove le piante sono sospese e il nutrimento arriva nebulizzato nell’aria. In questo caso l’irrorazione delle piante avviene attraverso una soluzione nutritiva fatta da acqua e sali minerali – in dosi specifiche per ogni tipo di varietà coltivata e del suo stato di crescita.
Gli impianti idroponici sono poi a loro volta suddivisi in diverse tipologie che variano a seconda dell’ortaggio o dello spazio a disposizione.

 

Rispetto alle coltivazioni più tradizionali, l’agricoltura verticale porta con sé un altro notevole vantaggio oltre al risparmio idrico: la riduzione dell’uso di agrofarmaci e pesticidi e un contenuto utilizzo degli spazi. 

Il vertical farming è davvero utile?

Questa versione futuristica delle fattorie però non permette solo la coltivazione di piante, ma anche l’allevamento dei pesci, e in questo caso si chiama coltivazione acquaponica. Avviene con le stesse dinamiche di quella idroponica: la soluzione nutritiva presente nelle vasche passa poi nelle canaline e va a bagnare le radici delle piante. In questo modo sarà possibile avere una produzione parallela creando un ambiente ideale per l’allevamento ittico e per la coltivazione di vegetali. Anche qui, tra i vantaggi ci sono ovviamente il minor utilizzo di elementi nutritivi e di risorse idriche. 

Se da un lato tutto questo risulta estremamente affascinante, innovativo e anzi una vera e propria svolta in termini di ecosostenibilità, c’è chi crede che le vertical farm, per come sono intese oggi, non siano la risposta definitiva a una filiera agroalimentare rispettosa dell’ambiente. 

Tra i più grandi dubbi che ruotano attorno a queste realtà c’è sicuramente l’ingente dispendio energetico dovuto non solo all’illuminazione led, settata per ogni singola pianta, ma anche per tutto il sistema elettrico automatizzato (e di intelligenza artificiale) perennemente acceso. 

C’è da dire che le serre automatizzate possono essere una garanzia di continuità della produzione nei prossimi decenni, in cui è prevista una notevole instabilità climatica. È forte però anche la paura di un luogo che un giorno potrà replicare qualsiasi tipo di ortaggio in qualsiasi periodo dell’anno, assecondando la domanda di mercato che spinge per il consumo di pomodori in pieno inverno o dei mandarini in estate. Sul Sole24Ore Luca Travaglini, cofounder e co-ceo della start up Planet Farms, mostra l’altro lato di questa riproducibilità agricola e l’utilizzo che se ne vuole fare: “Noi non siamo in competizione o contro l’agricoltura tradizionale ma siamo complementari. Oggi abbiamo delle colture intensive a grosso impatto ambientale, con problemi sulle falde acquifere e sui terreni. Si possono quindi rigenerare i terreni con regimi rotativi naturali, portando una parte della produzione in strutture come la nostra che sono realmente sostenibili ed efficienti”. 

Il Vertical Farming nasce da un’esigenza di limitare il più possibile gli sprechi e assecondare la domanda del mercato senza impattare sull’ecosistema. Non da meno è l’ipotesi di poter assicurare una produzione agricola locale in luoghi in cui, ad oggi, non è possibile coltivare, come nei deserti o in paesi dalle temperature estreme. Ci sono poi realtà già molto avanti, come la start up britannica LettUs Grow, che stanno lavorando per una coltivazione aeroponica di alberi da frutto e di specie per la silvicoltura (la scienza forestale per l’impianto e la conservazione dei boschi). Non si esclude, infine, che in un futuro non troppo lontano le vertical farm potranno essere protagoniste di missioni spaziali.

 

Alice Caccamo

In continuo movimento tra Roma e Milano, scrive di enogastronomia e di sostenibilità, territorio e tradizioni. Appassionata dell'Italia e delle sue infinite ricchezze, crede nell'importanza dei prodotti naturali e autentici.