Come il menu pasquale è diventato un campo di battaglia

Agnello a Pasqua

Non c’è una festività il cui menu sia più controverso. Non tanto per la ricetta del casatiello, anche se certo anche quello è un argomento che spacca le famiglie e rompe le amicizie, ma per l’agnello.

Questo è quel periodo dell’anno in cui, se non ci fossero le restrizioni da Covid-19, vedremmo le nostre piazze piene di manifestazioni di associazioni animaliste che reggono foto di agnellini. Quando si parla di agnelli a Pasqua entrano in campo questioni ambientaliste, di benessere animale, di tradizione e anche di semplice e istintiva simpatia verso un animaletto che ci fa più tenerezza di un cucciolo di cinghiale. E così l’avvicinarsi della Pasqua porta inevitabilmente con sé discussioni, a tavola e fuori dalla tavola.

Agnello a Pasqua: la storia

L’agnello fa parte della tradizione culinaria italiana da secoli. La cucina romana ne fa largo uso, pensiamo al famoso abbacchio (ovvero l’agnello macellato entro il primo anno di vita) a scottadito, così come quella sarda, ma in generale nelle tavole del Centro-Sud l’agnello è sempre stato presente: costolette d’agnello, agnello al forno, ragù d’agnello… Ma perché fa parte anche della tradizione pasquale?

Il collegamento è ovviamente con la religione cristiana e prima ancora con quella ebraica. L’animale è simbolo di sacrificio è collegato alla Pasqua: nell’Antico Testamento il suo sangue viene usato per marchiare le porte degli ebrei in Egitto, così Dio sa quali sono le case da colpire, uccidendo i primogeniti degli egiziani. Tuttora per Pèsach, la Pasqua ebraica, celebrazione della liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto, si mangiano piatti a base di agnello. Nella religione cristiana la simbologia dell’agnello è persistita – “Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo” – e la tradizione di mangiare l’animale è passata anche nella Pasqua cristiana. E il consumo di agnello dal Centro-Sud, maggiormente vocato alla pastorizia, si è espanso al Nord Italia.

La tradizione pasquale più dibattuta di tutte

Eppure negli ultimi anni l’agnello è diventato l’animale simbolo delle lotte di animalisti e vegani. Certo si presta a bene: queste creaturine coperte di un vello bianco e morbido, fotografate vicino alle loro mamme, o in braccio a ragazze sorridenti sullo sfondo di prati in fiore. E questo fa sì che molti consumatori di carne si rifiutino di mangiare l’agnello, mentre consumano senza problemi carni industriali di pollo, di maiale o di manzo, incuranti di come siano stati allevati o uccisi perché sono meno “carini”. Cambierebbero idea se sapessero che quelle creaturine fotografate hanno pochi giorni di vita mentre normalmente gli agnelli si macellano diversi mesi, se non un anno, dopo?

E così ogni anno intorno a Pasqua si moltiplicano manifestazioni animaliste e campagne mediatiche e social che incitano a non consumare agnello. Ma perché dovrebbe essere peggio mangiare carne di agnello invece che di vitello o di coniglio?

Agnello a Pasqua

Questo bellissimo articolo di Annalisa Zordan, pubblicato l’anno scorso su Il Gambero Rosso, ci fa vedere la questione da un punto di vista quasi sempre ignorato: quello dei pastori. I pastori intervistati tirano fuori alcune questioni a cui tendiamo a non pensare mai: sarebbe possibile mantenere produttivo un gregge di ovini anche lasciando in vita tutti i maschi? Ovviamente questa domanda non è rivolta ai vegani, per cui nemmeno il formaggio dovrebbe essere consumato, ma a tutti coloro che si tagliano tutti contenti una fetta di pecorino ma “L’agnello no, che orrore.” Ma anche se pensassimo di liberare tutte le greggi del mondo, cosa succederebbe se scomparisse il mestiere della pastorizia? Quante persone perderebbero il lavoro, perdendo tradizioni secolari, distruggendo intere comunità dal punto di vista economico e sociale?

Quest’ultimo è uno dei punti più battuti anche da Slow Food che, quando si parla di allevamento spinge sempre a non limitarsi a pensare solo al benessere animale o alle ricadute ambientali, ma anche a quanto siano inestricabilmente legate al fattore umano. E che infatti protegge tre diverse razze di agnello con i Presìdi Slow Food: Agnello d’Alpago, Agnello Sambucano, Agnello di Zeri. Infine: le pecore potrebbero davvero vivere in libertà? Pensiamo alla pecora australiana trovata con 35 kg di vello addosso dopo anni di “vagabondaggio”. O più semplicemente pensiamo ai lupi e agli altri predatori.

Agnello a Pasqua: sì o no?

Gli ultimi dati arrivati dalla Sardegna dimostrano che anche quest’anno le vendite di agnello sono altissime superando abbondantemente i 5 euro al kg già dalla seconda settimana di marzo. Insomma, nonostante tutto, la gente continua a mangiare agnello.

Il tema è complesso e difficile da ridurre a una semplificazione manichea tra bene e male, agnelli buoni e pastori cattivi. Come sempre quando si parla di allevamento penso che si debbano rispettare le scelte di tutti, chi li mangia e chi non li mangia, con un doveroso distinguo: la scelta di dove prendiamo gli agnelli, o qualsiasi altra carne, fa la differenza. Informatevi sui produttori. Chiedete. Andateli a trovare, anche. Sapere da dove arriva la carne che si mangia fa la differenza tra un consumatore consapevole e uno no.

Giorgia Cannarella

Bolognese per nascita e per scelta, vincitrice del premio miglior food writer per Identità Golose, scrive di cibo e tutto quello che gli ruota intorno