Joia, 30 anni di alta cucina vegetariana by Pietro Leemann

Se aprire un ristorante d’impronta vegetariana appare un azzardo ancora oggi, pensate ai rischi che si è preso Pietro Leemann 30 anni fa, quando ha inaugurato il suo Joia a Milano. Ma non stiamo parlando di un progetto qualsiasi, né tantomeno di uno chef come gli altri.

Pietro Leemann è giustamente annoverato tra i massimi precursori della ristorazione green, etica e sostenibile. Nel 1996, a distanza di 12 anni dall’apertura, fuori dal locale di via Castaldi (zona Porta Venezia) campeggiava già la stella Michelin. Il record è di quelli che fanno storia: Joia – Alta Cucina Vegetariana è stato, infatti, il primo ristorante vegetariano d’Europa a convincere i famigerati ispettori della “rossa” e ancora oggi resta il modello indiscusso da seguire nel Vecchio Continente.

 

Pietro Leemann

 

Classe 1961, nato a Locarno in Svizzera, Leemann si appassiona sin da piccolo alla natura e alla terra, aiutando i genitori nell’orto di famiglia. La folgorazione arriva nel 1976 davanti una bavarese alla vaniglia dello chef ticinese Angelo Conti Rossini. Bastano un paio di cucchiaiate per capire che da grande sarebbe diventato un cuoco. E così comincia il suo apprendistato, affidandosi a maestri del calibro dello stesso Conti Rossini, poi Gualtiero Marchesi e Frédy Girardet, dai quali acquisisce le basi della grande cucina.

 

Agli inizi degli anni Ottanta si avvicina alla cultura vegetariana ed entra in contatto con il movimento ecologista, all’epoca impegnato a gettare le basi per una nuova alimentazione amica dell’ambiente e della salute. Pietro Leemann decide di partire per l’Oriente, dove approfondisce il Buddismo Zen, il Taoismo e il mondo dei Veda. Questo viaggio, geografico ma soprattutto spirituale, lo cambia profondamente. E una volta tornato a Milano, nel 1989, si sente pronto per aprire con alcuni amici un ristorante capace di tradurre in creazioni, colori e sapori tutto ciò che ha appreso.

 

Oggi il Joia conta 16 cuochi, supervisionati dallo chef patron Leemann e dallo chef executive Sauro Ricci, mentre la selezione dei vini è affidata al direttore Antonio Di Mora. «Il cibo non nutre soltanto il corpo, ma anche la mente e lo spirito», premette. «Io sono partito dagli studi di antroposofia, legati alla figura del filosofo, agronomo e mistico Rudolf Steiner. Vivendo in Cina e in Giappone, ho avuto modo di conoscere la dietetica cinese, che approfondisce il funzionamento dell’organismo mettendolo in relazione con il cosmo». E poi c’è l’ayurveda. «Negli ultimi anni mi sono avvicinato a questo stile alimentare che sottolinea l’importanza di un’alimentazione vegetariana per mantenerci in buona salute e aspirare a un’evoluzione della nostra coscienza».

 

 

Al Joia le materie prime sono protagoniste. «La frutta e la verdura sono biologiche e di stagione. Credo sia sciocco mangiare i pomodori a Natale o le fragole a febbraio. Non è solo una questione di sapore e di apparenza, bensì di qualità organolettiche e nutrizionali». Dietro a ciascun ingrediente c’è un grande lavoro di selezione e relazione. «I miei fornitori sono perlopiù contadini, che negli anni sono diventati anche amici preziosi. Il prossimo 29 settembre, in occasione della festa dei 30 anni del Joia, saranno tutti presenti al ristorante».

 

Può farci qualche nome?

«L’Agricola Corbari di Cernusco sul Naviglio e la Cascina Caremma di Besate mi garantiscono ortofrutta a chilometro zero. A Paderno Ponchielli, nel Cremonese, c’è Rosso Rapa, ma l’elenco include anche Bio Baj di Cantello, nel Varesotto, per i celebri asparagi locali e le patate. Mi piace molto raccogliere erbe spontanee e vado per funghi. In Svizzera, durante la bella stagione, coltivo anche i fiori edibili».

 

Quali sono i vegetali a cui non potrebbe mai rinunciare?

«In primavera utilizzo molto gli asparagi, che rappresentano la rinascita della natura. L’estate è il regno delle melanzane, una verdura straordinariamente versatile, il cui gusto richiama l’umami. In autunno spazio alla zucca e alla sua dolcezza, che anche nel colore richiama le foglie che cadono dagli alberi. In inverno scelgo spesso il carciofo, che insieme al cavolo, alla verza e alla rapa, è tra le verdure che maturano più lentamente, assorbendo numerose sostanze nei tanti mesi di permanenza nel terreno». E sul fronte della frutta? In primavera amo le nespole, una varietà ingiustamente poco nota e diffusa. In estate i mirtilli delle mie montagne non hanno rivali; mentre in autunno arriva la mela cotogna e in inverno la pera, due frutti dal sapore intenso e pieno».

Il tema della trasformazione resta centrale.

«A mio avviso è importante mantenere le caratteristiche di ciò che cucino: senza stravolgere gli elementi di partenza, ma al contrario valorizzandoli. L’immagine che utilizzo per spiegare questo concetto è quella dello chef come canna di bambù tra il cibo e l’ospite». Quattro i valori fondanti: forma, colore, gusto, consistenza. Cinque i macro-gusti: acido, salato, piccante, amaro e dolce. «La cucina tradizionale tende a distinguere il salato dal dolce, noi al contrario uniamo questi mondi creando abbinamenti per complemento o contrasto. Ogni piatto è un mondo a sé, messo a punto dopo un lungo lavoro di studio e ricerca che include anche la cura della composizione».

 

Non a caso i piatti di Leemann si mangiano prima con gli occhi: il loro altissimo valore estetico ricorda i quadri di un artista astratto. Tra i suoi classici non possiamo fare a meno di citare Le mie dolci verdure, un dolce in cui gli ortaggi di stagione vengono sciroppati con mousse di cioccolato bianco e miele, gelato di vaniglia con salsa di olivello del bosco. L’anguria è al centro del Carpaccio del benessere, mentre il Gong arriva in tavola in un vaso di vetro. Il commensale è chiamato ad aprirlo e affondare il cucchiaio in una delizia di vermicelli di castagne con salsa di cachi, spuma vaporosa, crumble croccante, contrasti delicati di lamponi e di menta. Semplicemente irresistibile.

Jessica Bordoni

Milanese giramondo, giornalista professionista dal 2015. Scrive di food&wine su varie testate, tra cui Civiltà del bere, Il Giornale e Le Guide di Repubblica.