Verdure sì, ma senza dire “vegano”: il Belgio cambia linguaggio (e forse anche prospettiva)

In Belgio, da qualche mese, si parla di verdure come non si era mai fatto prima. Il governo delle Fiandre – la regione più popolosa del Paese – ha lanciato una campagna per incoraggiare la popolazione a mangiare meno carne. Ma invece di puntare sul classico messaggio salutista o ambientale, ha scelto una strada più… semantica: eliminare dai menu le parole “vegano” e “vegetariano” e sostituirle con simboli o termini più neutri. Ne ha appena parlato anche il Gambero Rosso.

L’hanno definita un’operazione di “rebranding linguistico”: in pratica, se un piatto è a base vegetale, meglio segnalarlo con una foglia verde o una “V” discreta, senza usare etichette che, secondo il governo fiammingo, rischiano di essere divisive. Perché a quanto pare, “vegano” può ancora far scattare una certa diffidenza.

La semantica come politica alimentare

Dietro a questa scelta non c’è solo una trovata di comunicazione. Il Belgio, infatti, si è dato un obiettivo ambizioso: entro il 2030, il 60% delle proteine consumate dovranno provenire da fonti vegetali. Oggi, 5 anni prima siamo attorno al 40%, dunque si può affermare che la transizione proceda più lentamente del previsto. Così il ministro dell’Ambiente e dell’Agricoltura Jo Brouns ha pensato che il linguaggio potesse essere un alleato inatteso.

Il ragionamento è semplice (e supportato da diversi studi): parole come “vegano” o “vegetariano” evocano, per molte persone, qualcosa di “noioso”, “estremo” o “poco gustoso”. Viceversa, termini come “plant-based” o espressioni più neutre tendono a generare curiosità e apertura. In altre parole, non è il cavolfiore il problema, ma come lo racconti.

Il peso (invisibile) delle etichette

Da anni, la narrazione intorno al cibo plant-based oscilla tra due poli: da un lato l’attivismo etico e climatico, dall’altro il marketing patinato dei sostituti della carne. Nel mezzo, la percezione comune – ancora spesso viziata da cliché. “Vegano” suona come una scelta identitaria, “vegetariano” come un compromesso, mentre “piatto a base vegetale” sembra semplicemente… una ricetta in più nel menu.

E forse è proprio qui che il Belgio vuole arrivare: togliere peso ideologico al gesto di ordinare un piatto senza carne. Perché se un burger di ceci non viene presentato come “alternativa vegana”, ma come burger di ceci con maionese affumicata e pickles, la probabilità che lo scelga anche un onnivoro sale alle stelle.

Il paradosso del “vegan marketing”

Questa riflessione tocca anche il modo in cui i brand comunicano il cibo sostenibile. Per anni, il termine vegan è stato un badge di orgoglio e di appartenenza. Ma oggi, in una società che cerca inclusione anche a tavola, rischia di essere un muro più che un ponte.

Lo sanno bene le aziende del food tech: molte, come Beyond Meat o Heura, hanno progressivamente abbandonato il termine “vegan” nelle campagne pubblicitarie, preferendo “plant-based” o “100% vegetale”. Non per nascondere un’identità, ma per renderla più accessibile.

Del resto, è un po’ come con la moda sostenibile: il messaggio più efficace non è “compra questo perché è etico”, ma “compra questo perché ti piace e anche è etico”.

Serve davvero cambiare le parole?

La domanda resta aperta. Da un lato, evitare termini polarizzanti può aiutare a “normalizzare” le scelte più sostenibili. Dall’altro, c’è chi teme che così si perda la forza politica del termine “vegano”, nato anche per indicare un movimento etico e sociale, non solo alimentare.

E se invece la chiave fosse la coesistenza di più linguaggi? Forse non serve cancellare il termine “vegano”, ma imparare a usarlo in modo meno esclusivo e più pop. Perché tra chi ordina un tofu bowl e chi non rinuncerebbe mai alla tagliata, c’è un mondo di persone che cercano semplicemente di mangiare meglio, un passo alla volta. In questo senso, la sfida più interessante è culturale: creare un immaginario “plant-based” che non parli di rinuncia, ma di curiosità, gusto e scoperta.

Un rebranding che parte dal piatto

Alla fine, le parole contano, ma contano anche (e forse di più) i sapori. Nessuna strategia linguistica potrà funzionare se i piatti vegetali non sono davvero appetitosi, accessibili e ben raccontati. Eppure, questo esperimento del Belgio dice qualcosa di importante: il modo in cui parliamo di cibo può cambiare il modo in cui lo viviamo. Se “vegano” evoca un senso di distanza, forse basta un linguaggio più neutro per riportare le persone a tavola – letteralmente 😀