Negli ultimi mesi i titoli di molti giornali internazionali hanno avuto toni allarmanti: “I burger vegani stanno perdendo la guerra culturale”, “Il capolinea della carne finta”. Ma davvero i burger vegetali stanno per sparire dai supermercati e dai menù dei ristoranti? La risposta breve è no. Quella lunga è che siamo davanti a una transizione più complessa, dove contano la cultura, la geografia, la politica, e anche il prezzo.
Cosa succede negli Stati Uniti
Negli Stati Uniti il consumo di burger vegetali è in calo: le vendite sono scese del 17% e aziende come Beyond Meat e Impossible Foods hanno dovuto ridimensionare piani e personale (fonte: The Guardian, riportato da Il Fatto Alimentare). Non è solo questione di gusto: il cibo negli USA è diventato parte di una vera e propria guerra culturale.
Come racconta Veganok, infatti, negli anni di Trump la carne è stata trasformata in un simbolo politico. Influencer conservatori promuovono la “carnivore diet” (a base quasi esclusiva di carne e frattaglie) e attaccano i burger vegetali definendoli “ultra processati”. Un esempio è Paul Saladino, uno dei più noti divulgatori carnivori americani, autori del podcast, che è anche un grande sostenitore del latte crudo come portentoso per la salute.
Non è un caso: la carne, negli USA, è legata a un immaginario profondo fatto di cowboy, ranch e West selvaggio. In questo contesto, mangiare un burger vegetale non è solo un gesto alimentare, ma è percepito come una presa di posizione politica. E in un Paese polarizzato, questo basta a condizionare le vendite.

Ma è davvero una crisi globale?
Qui entra in gioco una distinzione fondamentale: il momento americano non rappresenta la realtà del resto del mondo. In Europa, e soprattutto in Italia, i dati raccontano tutt’altra storia. Secondo una ricerca YouGov citata da Il Fatto Alimentare, oltre 15 milioni di famiglie italiane (il 59,3%) hanno acquistato prodotti plant-based nel 2024, con un aumento della frequenza d’acquisto di quasi il 10%. Bevande vegetali e gastronomia vegetale sono le categorie più forti, acquistate rispettivamente dal 39,3% e dal 38% delle famiglie. Il Rapporto Coop 2025 lo conferma: la gastronomia vegetale cresce del +20,9%, mentre le vendite di carne bovina segnano un -0,9%. Altro che crisi: siamo davanti a un’espansione strutturale, e non solamente in Italia. In Francia, le vendite vegetali sono cresciute dell’8,8%, in Germania del 7,1% (fonte: Veganok).
Prezzo e accessibilità
Una delle ragioni di questa differenza sta nel prezzo. Negli Stati Uniti i burger vegetali restano spesso un prodotto premium, più caro della carne. In Europa, invece, le private label dei supermercati hanno reso queste alternative accessibili, democratiche e parte integrante del carrello. Soluzioni comode e percepite come healthy per le occasioni in cui non si ha voglia di passare troppo tempo ai fornelli.
Questa scelta strategica è decisiva: se il vegan rimane un lusso, sopravvive solo come nicchia ideologica; se diventa accessibile, può entrare nella routine alimentare di tutti. Ed è quello che sta succedendo in Italia, dove i veri protagonisti non sono i vegani “puri e duri”, ma i flexitariani – consumatori che riducono la carne senza eliminarla del tutto.
Oltre l’imitazione della carne
Un altro errore di prospettiva: non tutto il mercato plant-based ruota attorno ai burger che imitano la carne. Certo, Beyond e Impossible hanno fatto da apripista, ma oggi la vera crescita arriva da prodotti che hanno un valore autonomo: bevande vegetali, alternative ai latticini, gastronomia creativa. Come sottolinea Veganok, il consumatore europeo sta maturando: non cerca solo un sostituto “finto”, ma un’alternativa gustosa e versatile. In altre parole, il successo del plant-based non dipende dall’illusione di mangiare carne, ma dalla capacità di offrire varietà e sapore.

Una transizione, non una fine
L’euforia finanziaria del 2018-2021, con valutazioni miliardarie per aziende ancora lontane dal profitto, era oggettivamente insostenibile. Succede a quasi tutti i fenomeni contemporanei: crescita vertiginosa – picco – calo- stabilizzazione. Il ridimensionamento di oggi non significa fallimento, ma normalizzazione: il settore entra in una fase matura, dove contano sostenibilità economica, qualità del prodotto e comunicazione efficace. Come ha ammesso Ethan Brown, CEO di Beyond Meat, “non è il nostro momento” (The Guardian, citato da Il Fatto Alimentare). Ma questo non significa che sia la fine: significa che la bolla iniziale si sta assestando.
L’Italia come laboratorio del futuro
Il dato più interessante è che l’Italia – Paese tradizionalmente legato alla cucina “vera” – si stia muovendo con pragmatismo. Secondo l’indagine Eurispes 2024, i vegetariani sono il 7,2% e i vegani il 2,3%, numeri ancora piccoli ma in crescita. Eppure, il mercato plant-based esplode anche tra chi non abbandona del tutto la carne. Questo racconta molto della nostra cultura alimentare: non vediamo i burger vegetali come una minaccia identitaria, ma come un’opzione in più. Non è una rivoluzione ideologica, è un’evoluzione pragmatica.
Guardiamo avanti, non indietro
Quindi no, l’era della finta carne non è finita. È semplicemente uscita dalla fase hype e sta entrando in quella della vita quotidiana.
Gli Stati Uniti ci insegnano cosa evitare: prezzi troppo alti, aspettative irrealistiche, polarizzazione politica. L’Europa ci mostra cosa funziona: accessibilità, normalizzazione, varietà di offerta. Per i consumatori significa avere più scelta, per le aziende significa costruire modelli sostenibili, e per l’ambiente significa ridurre – anche gradualmente – l’impatto della nostra alimentazione.
Il futuro del plant-based non sarà deciso da un titolo di giornale, ma da ciò che mettiamo ogni giorno nel carrello. E i dati dicono che, almeno in Italia, stiamo scegliendo sempre più spesso la strada verde.