Cosa ci insegna la storia delle “crêpes magiche” di TikTok

Ho provato a resistere a TikTok per circa un anno, sono sopravvissuto al primo lockdown senza nemmeno scaricarlo. Poi ho letto dell’algoritmo a prova di hacker, che fa miracoli nell’individuare i tuoi gusti, ed eccomi qua: se ci fossero i punti millemiglia per i minuti spesi sull’app, avrei già girato il mondo.

Ho recentemente notato un trend – lo sapete no, al giorno d’oggi esistono anche le “Ricette di TikTok” – che, video dopo video, ha iniziato a farmi insospettire e infastidire: quello che in molti chiamano la ricetta delle crêpes magiche.
Si tratta semplicemente di un cibo che al nostro sguardo occidente-centrico ricorda una crêpes un po’ abbrustolita, ma dalle infinite promesse. Cito caption prese qua e là da TikTok e YouTube: proteiche, vegane, senza glutine, senza grassi, ricche di proteine, deliziose, Egg-free, Oil-Free, Paleo, High Fiber, Grain Free, Not Free, Dairy Free, Super Simple to Make! Addirittura, mi è toccato anche leggere “piadine di lenticchie”.

Cosa sono le crêpes magiche di Tik Tok

Il procedimento è molto semplice: si mette in ammollo per due ore un bicchiere di lenticchie rosse in due bicchieri d’acqua. Trascorso il tempo, si frulla tutto, con un frullatore ad immersione, fino ad ottenere una pastella liscia ed omogenea. Si scalda poi una padella unta d’olio, si versa il composto di lenticchie, spalmandolo, e si cuoce circa tre minuti per lato.

Perché il sospetto? Perché la magia di queste crêpes sta nell’essere la copia un bel po’ white-washed di un prodotto culinario dell’India Meridionale, originario del 1° secolo d.C., diffuso anche tra i Tamil dello Sri Lanka: il dosa. Il dosa è una frittella salata a base di riso e fagioli mungo neri non molto dissimile nell’aspetto da una crespella.

Per prepararlo vengono messi a mollo nell’acqua riso e fagioli che vengono successivamente macinati fino a quando si verrà a formare una pastella. L’impasto può anche essere insaporito con il fieno greco. La pastella viene messa a fermentare per una notte. La pastella viene quindi versata su una tava (una padella spesso usata nella cucina indiana) unta con olio o ghee e modellata a piacere durante la cottura con un mestolo. Il dosa viene servito ancora caldo e può essere consumato con il chutney, il sambar l’idlii podi o le patate stufate. (Grazie Wikipedia)

L’appropriazione culturale, in breve

Ma perché, in quasi nessun video che cavalca il trend non esiste traccia di un riferimento al nome, alla provenienza e alla storia di questo piatto, che ad un certo punto ha preso nomi ridicoli ed è diventato macchina di profitto per persone che non hanno reso omaggio alla cultura dal quale è stato “preso in prestito”? Inoltre, nei video di TikTok la ricetta è diventata trend tralasciando elemen> fondamentali dei dosa: la presenza del riso macinato, la fermentazione per 24h grazie alla lavorazione della miscela con le mani con tecniche precise, l’uso delle lenticchie rosse di provenienza egiziana al posto dei fagioli mungo neri e l’uso del ghee al posto dell’olio (nella versione Nei Dosai).

Il dosa è simbolo della cultura delle regioni in cui è diffuso, dove non c’è sempre disponibilità di tutti gli ingredienti secondo le quantità desiderate, dove i prezzi oscillano a seconda di come va il raccolto e il rapporto domanda/offerta dei mercati. In Occidente è già di per sé snaturato perché fatto con prodotti presenti 365/365 nel supermercato sotto casa. Il che non implica l’impossibilità di replicarlo a casa propria, ma se decidi di postarlo è bene che informi il tuo pubblico.

Il problema dell’Occidente con il cibo indiano

Come racconta la writer di Eater Nayantara Dutta, per molte persone di colore, il cibo può essere motivo di orgoglio e vergogna. Tante volte, crescendo, l’autrice è stata presa in giro perché i bianchi attorno a lei si lamentavano di quanto il cibo indiano influisse sulla loro digestione. Ogni volta che andava a casa di un’amica britannica a giocare, sua madre si pavoneggiava del fatto che ordinassero sempre cibo indiano (sempre e solo al curry) e di quanto fosse così sollevata che un certo particolare ristorante non le desse problemi di stomaco. Voleva una pacca sulla spalla per aver avuto il coraggio di ordinare cibo etnico, ma alterando la sua cultura e aspettandosi la sua conferma, mettendola a disagio.

Sempre Nayantara Dutta: “alla fine, le stesse ricette per cui ero stata presa in giro sono diventate chic, gentrificate e approvate da Goop. La loro popolarità nelle mani dei bianchi mi ha fatto capire che le persone non volevano vedere una faccia scura dietro il cibo scuro. Ho incontrato persone che erano riluttanti a provare il mio nimbu pani fatto in casa, ma pagherebbero felicemente $ 6 per il caffè filtrato dell’India meridionale fatto da una donna bianca a Smorgasburg. […] Ho anche visto gli effetti del colonialismo nel modo in cui le persone mi spiegano la mia cultura, senza alcuna consapevolezza delle dinamiche di potere. Succede spesso nei ristoranti. In un ristorante indiano a Manhattan, un cameriere bianco si è sentito in dovere di spiegarmi il kulcha.”

È diventato sempre più di moda rimuovere il cibo indiano dal suo contesto culturale, buttandolo nella fossa dei termini click-bait (quelli che ci dicono che quel piatto è assolutamente da mangiare perché cambierà la nostra vita). Forse anche perché nel mondo occidentale, il cibo indiano è spesso quello del take-out, dove sparisce ogni possibilità di educare i clienti bianchi e renderli consapevoli delle infinite ed elaborate tecniche che stanno dietro ad ogni piatto.

Eppure, proprio il dosa ha alla sua origine esigenze, ingredienti e tecniche che sono parte del DNA della cultura di quella parte dell’India. Esportato all’estero ha senso come tentativo, ma solo con un atto di rispetto, rendendogli omaggio. La regola della cultural appreciation è in fondo molto semplice: se prendi ispirazione da una certa cultura, sii certo che tutti conoscano la storia ed il nome di quanto stai utilizzando, dai credito agli autori e includi persone di quella cultura.