Cos’è l’Ostroveganismo – e perché se ne parla

L’ostroveganismo è una dieta ibrida: parte dal paradigma vegano, ma apre un’eccezione significativa — il consumo di molluschi bivalvi (cozze, vongole, ostriche, capesante, telline ecc.). L’idea chiave è che questi organismi marini non abbiano un sistema nervoso centrale sviluppato, per cui non “proverebbero dolore”; allo stesso tempo, la loro allevamento è considerato fra i più sostenibili, e rappresentano una fonte di proteine, Omega-3, vitamina B12, ferro e zinco, nutrienti spesso carenti in una dieta vegana stretta.

Origini e contesto storico-culturale

Il termine “ostrovegano” (o “ostroveganismo”) appare per la prima volta in inglese, come “ostrovegan”, verso la fine del 2017: secondo l’Urban Dictionary, “a person who is otherwise vegan, but is ok to with consuming some bivalves (oysters, mussels, clams) under certain conditions”.
Tuttavia, le argomentazioni filosofiche che lo precedono sono più antiche: ad esempio un articolo del 2010 su Slate intitolato Consider the Oyster esplora l’idea che le ostriche possano essere un “vegetale marino” sul piano etico, dato che mancano di sistema nervoso centrale.

Da un punto di vista culturale, questo regime alimentare nasce in un contesto di crescente interesse verso scelte alimentari sostenibili e flessibili: i cosiddetti flexitariani, le diete plant-based, le questioni ambientali legate all’allevamento intensivo animali. L’ostroveganismo si pone in questa galassia come scelta “intermedia”: lascia fuori carne e pesce “tradizionali”, ma ammette bivalvi per motivi nutrizionali e ambientali.

Perché qualcuno lo sceglie

Le motivazioni sono multiple. Nutrizionali: i molluschi bivalvi sono ricchi di ferro, zinco, vitamina B12 e acidi grassi Omega-3, nutrienti di cui può esserci carenza in diete vegane stricte. Ambientali: l’allevamento dei bivalvi è spesso citato come una fra le forme più sostenibili di acquacoltura: non richiedono terre agricole, acqua dolce, mangimi industriali, pesticidi o antibiotici, e possono contribuire a migliorare la qualità dell’acqua filtrando nutrienti e sedimenti. Ad esempio, uno studio mostra che l’acquacoltura dei bivalvi ha un’impronta di gas-serra molto più bassa rispetto alla carne bovina e nessun uso di terra. E infine, etico-filosofiche: per alcuni, la scelta punta a evitare gli animali con capacità di sofferenza conscia (come mammiferi e pesci) e accettare quelli che sono considerati organismi “filtratori” o “privi” del sistema nervoso centrale come compromesso accettabile.

Quali sono le controversie?

L’ostroveganismo raccoglie critiche importanti, soprattutto dalla comunità vegana tradizionale. Il motivo principale è che il principio vegano classico esclude qualsiasi organismo animale, sulla base dell’assunto che tutti gli animali possano provare sofferenza o essere oggetto di sfruttamento. Ammettere molluschi bivalvi – anche se privi di cervello complesso – rompe questa regola e solleva il dubbio: si può ancora definirsi vegan mangiando ostriche o cozze?

Un altro punto caldo riguarda la capacità di percepire dolore nei bivalvi. Anche se mancano di un sistema nervoso centrale ben sviluppato, possiedono gangli nervosi e possono reagire agli stimoli ambientali. Alcuni scienziati sostengono che questo non è sufficiente a definire sofferenza cosciente, ma il dubbio rimane. Secondo la Philosophical Vegan Wiki, “bivalves possess nerves and ganglia … so in theory may be able to process information”. Su un piano più divulgativo, un articolo di The Minimalist Vegan scrive che “oysters and mussels are animals… we don’t really know if they feel pain”.

Inoltre, dal punto di vista comunicativo e culturale, c’è chi teme che questa dieta ibrida possa diluire il messaggio del veganismo, rendendo meno chiaro cosa significhi essere vegan e confondendo i consumatori. Nel dibattito si legge che abbassare la soglia di esclusione potrebbe diminuire la forza etica del movimento e rendere più difficile la distinzione tra scelta animal-free e scelta “quasi animal-free”.

Due riflessioni pratiche

Dal punto di vista nutrizionale, inserire occasionalmente bivalvi può essere una strategia intelligente seguendo una dieta vegana molto stretta e temendo carenze di B12, ferro o zinco. Tuttavia, è fondamentale accertarsi che le cozze provengano da filiere sostenibili e sicure, senza elevati rischi di contaminazione da metalli pesanti o inquinanti marini.

Sul piano della sostenibilità, gli studi indicano che l’allevamento dei bivalvi è tra i più efficienti: un’attività con impronta ecologica molto più bassa rispetto all’allevamento bovino ed essendo quasi auto-alimentata. Ad esempio, uno studio segnala che i molluschi filtratori non richiedono terreni agricoli né mangimi industriali. Ma va anche detto che “più efficiente” non equivale a impatto zero: gestire la filiera, evitare l’over-allevamento, rispettare la qualità dell’habitat marino sono tutti fattori che rimangono cruciali.

Quale futuro?

L’ostroveganismo potrebbe diventare più che una semplice curiosità dietetica: per Millennials e Gen Z che cercano soluzioni pratiche, sostenibili e meno categoriche, rappresenta un approccio “più vegetale ma accessibile”. Non è rigidamente vegano, ma cerca un equilibrio tra coerenza etica, gusto e sostenibilità. Se i ristoranti, i produttori e i media iniziano a parlare dei bivalvi come “proteina sostenibile del mare” e non solo come strumento etico, l’adozione potrebbe crescere.

È un percorso più fluido rispetto alla polarizzazione “vegano vs onnivoro”: si tratta di chiedersi se mangiare “meno carne, più vegetale e mare” possa essere una scelta valida. In questo senso, l’ostroveganismo ci aiuta a esplorare le zone grigie di una dieta sostenibile, piuttosto che pretendere una perfezione netta.