Nel 2028, in Europa, un burger di ceci non potrà più chiamarsi burger, né una salsiccia vegetale potrà definirsi salsiccia. Lo si è letto in questi giorni su tutti i giornali.
Così ha deciso il Parlamento europeo, approvando un emendamento che vieta l’uso di nomi “di origine animale” per i prodotti vegetali.
Una misura che — ufficialmente — punta a “evitare confusione nei consumatori”, ma che suona più come un segnale politico: un modo per difendere la filiera zootecnica in un momento storico in cui il consumo di carne cala e il plant-based cresce, a doppia cifra, in tutta Europa. Dietro la facciata della chiarezza, infatti, si nasconde una tensione più profonda: quella tra passato e futuro, tra l’idea di identità alimentare e il bisogno di reinventarla.
“Burger” no, “disco vegetale pressato” sì
La norma (ancora da negoziare con i governi dei 27 Stati membri) vieterebbe l’utilizzo di termini come bistecca, salsiccia, scaloppina, tuorlo, albume per descrivere alimenti di origine vegetale.
È la continuazione logica di una battaglia già iniziata nel settore lattiero: da anni, infatti, “latte” e “burro” sono riservati per legge ai prodotti animali. Il risultato è francamente paradossale: mentre da un lato l’Europa spinge per diete più sostenibili e meno impattanti sul pianeta, dall’altro rischia di penalizzare chi, quei valori, li sta già traducendo in pratica.
Le aziende del plant-based denunciano un effetto boomerang: cambiare packaging, comunicazione e denominazioni significherebbe ridurre la riconoscibilità dei prodotti e creare confusione — quella stessa confusione che la norma dice di voler evitare.
Nel frattempo, le lobby agricole esultano: “Un hamburger è un hamburger”, ha dichiarato l’eurodeputata francese Céline Imart.

Quando il veganismo diventa business
Sul fronte opposto, un’altra voce scuote il dibattito: quella dello chef basco Andoni Luis Aduriz del Mugaritz, uno dei ristoranti più influenti al mondo.
In un editoriale pubblicato su El País e ripreso dal Gambero Rosso, Aduriz accusa il movimento vegano di aver perso la sua anima.
Da rivoluzione etica contro lo sfruttamento animale, il veganismo — scrive — si è trasformato in un business globale di prodotti ultraprocessati: burger, nuggets, formaggi, dessert e gelati che replicano i corrispettivi animali, ma senza mettere in discussione il modello industriale da cui tutto era partito.
Il suo j’accuse è diretto: «È deplorevole che, invece di promuovere la biodiversità vegetale, la cultura del no food venga propagata sotto forma di hamburger, pizze e panini vegani. Ancora una volta la battaglia per un mondo diverso viene persa per strada, a causa dell’avidità economica».
È un avvertimento: il rischio che la rivoluzione vegetale finisca per assomigliare fin troppo al sistema che voleva cambiare.

Una nuova categoria, con tutte le sue contraddizioni
Eppure, tra il moralismo di Bruxelles e lo scetticismo di Aduriz, la realtà è un po’ più sfumata: il mondo del plant-based è giovane, caotico e in piena evoluzione.
Certo, esistono prodotti discutibili, pieni di additivi e stabilizzanti. Ma anche moltissime aziende serie che stanno investendo su ingredienti puliti, filiere locali e innovazione tecnologica sostenibile.
Soprattutto, questi prodotti hanno aperto una porta culturale: hanno reso possibile per milioni di persone ridurre il consumo di carne senza sentirsi esclusi.
Per chi vive una vita frenetica, per chi non sa cucinare o semplicemente vuole concedersi un fast food “senza sensi di colpa”, il burger vegetale (o come dovremo chiamarlo, da qui a tre anni) è un alleato pratico, non un inganno semantico.
Il plant-based non sostituisce il mercato vegetale “puro”, fatto di legumi, cereali e verdure fresche ; lo affianca, lo aggiorna, lo porta nel mondo reale.
È una forma di flessibilità etica che non pretende coerenza assoluta, ma un cambiamento possibile. E questo, in tempi di polarizzazione, è già molto.
Il vero nodo? Le parole
Forse il punto non è se un burger vegetale debba chiamarsi burger o no.
Forse la sfida è trovare un linguaggio nuovo, più inclusivo e meno rigido;
un linguaggio che racconti il mondo vegetale per quello che è: complesso, sfaccettato, vivo.
L’Europa potrà pure imporre un lessico burocratico, ma le persone continueranno a chiamare burger ciò che riconoscono come tale.
Perché le abitudini alimentari non si scrivono nei regolamenti, ma nelle cucine, nei supermercati e nelle scelte quotidiane.
E se anche il nome cambierà, la sostanza resterà la stessa: la voglia, sempre più diffusa, di mangiare in modo più consapevole, senza sacrificare né il pianeta, né il piacere.