Esiste un fenomeno gastronomico che, silenziosamente, sta lasciando il segno: un movimento che non vuole “convertire” nessuno, ma spostare il baricentro. Lo chiamano Plant Forward, ed è meno ideologico di come potrebbe suonare. Non si tratta di convincere masse di persone a diventare vegane o vegetariane; piuttosto, è una nuova grammatica del cucinare e del mangiare in cui il vegetale torna al centro del piatto, con naturalezza, senza contrapposizioni inutili.
La normalità plant-forward è una normalità in cui la carne rientra nel menu quando è sensata, non quando è automatica. È un atteggiamento che rispecchia molto lo spirito delle generazioni più giovani: meno identità rigide, più flessibilità e scelta consapevole. La cultura dietetica degli anni ’90 e 2000, infatti, era piena di etichette; la cultura alimentare del 2025, al contrario si sta spostando dal “chi sei” al “come vivi” (e “come mangi”) — che è una dimensione più fluida, più in dialogo con l’esperienza quotidiana, meno intrappolata nella coerenza a tutti i costi.
Plant Forward affascina perché non riformatta la tavola in modo radicale, ma la “inclina” appena. Se prima la carne occupava la quota di senso, status e centralità, ora quel ruolo è occupato da un insieme di vegetali, cereali antichi, legumi, fermentazioni, semi e spezie che si integrano per produrre piatti completi, pieni e non privativi. Non c’è impoverimento del piatto; c’è, semmai, una ricalibratura della creatività. Dove ieri il pensiero era “cosa metto di fianco alla bistecca?”, oggi è “cosa costruisco intorno a una materia vegetale?”. È un cambio semantico ma soprattutto sensoriale: toglie l’idea che ciò che non è carne sia “sostituto”, “surrogato”, “compromesso”.

Per questo molti cuochi contemporanei, anche in Italia, stanno trovando nel Plant Forward una narrazione più libera, più sensata per la cucina mediterranea. Non c’è la pressione di convincere nessuno che un burger 100% legumi sia identico a un burger animale; si ragiona secondo una logica che privilegia la qualità della materia e la profondità tecnica. In sostanza: non si chiede di imitare la carne. Si chiede di valorizzare l’ingrediente vegetale con gli stessi standard qualitativi che fino a ieri venivano riservati solo a tagli pregiati di animali.
Questo punto è anche il più interessante: Plant Forward libera la cucina vegetale dal complesso di inferiorità. Non cerca più la validazione del confronto. Non ha bisogno di “somigliare”. È un paradigma che permette al piatto vegetale di essere finalmente sé stesso, narrato come costruzione autonoma e non come alternativa.
E c’è un’altra cosa da dire: questo tipo di alimentazione coincide in modo naturale con la narrazione estetica che oggi domina i social. Gli ingredienti che “fanno foto” non sono le bistecche. Sono i cavoli laccati, le carote glassate, la melassa di melograno che cola lente gocce sul piatto, le erbe aromatiche che esplodono verdi su un fondo neutro. La Gen Z non si sta avvicinando al Plant Forward perché sia ideologicamente veg. Ci sta arrivando perché il cibo vegetale è più interessante da cucinare, filmare, raccontare.

E mentre tutto questo accade nelle cucine, nei ristoranti, nelle storie Instagram, il mondo del lavoro e dell’economia agricola sta iniziando a immaginare cosa potrebbe succedere se questo equilibrio si spostasse su larga scala. Uno studio della Oxford Martin School (University of Oxford) ha mostrato che un passaggio globale verso diete più plant-based potrebbe ridisegnare la distribuzione del lavoro agricolo, ridurre i costi di manodopera e trasformare i modelli di produzione a livello sistemico. Questo significa che non si parla soltanto di preferenze individuali o di trend gastronomico: si parla della struttura di intere filiere produttive che potrebbero diventare meno dipendenti da allevamenti ad alta intensità e da feed importati, e più centrate su coltivazioni di qualità, filiere più leggere, e un uso del suolo più intelligente.
È una visione che, in Italia, potrebbe suonare quasi familiare. Il Mediterraneo ha sempre costruito il suo metabolismo alimentare su cereali, legumi, ortaggi e frutta. La carne era una celebrazione, non un quotidiano. Plant Forward, da questo punto di vista, non è una rottura culturale ma un rientro nel solco naturale della nostra storia gastronomica — un equilibrio che abbiamo perso relativamente di recente.
Plant Forward non promette rivoluzioni. Propone un rientro nella realtà.
Una realtà in cui il vegetale torna a occupare lo spazio che gli appartiene.
