Il vino naturale (o meglio artigianale) per Riccardo Baldi

riccardo baldi vino naturale

Alzi la mano chi non ha mai assistito a una discussione (tendenzialmente accesa) sul vino naturale. Che poi, se ne parla tanto, ma in quanti hanno capito veramente di cosa si tratta? Perché diciamolo, l’espressione “vino naturale” è una contraddizione in termini. Il vino è per definizione il risultato di un intervento da parte dell’uomo. Non nasce mica spontaneamente, naturalmente. Allora forse, più che di vino naturale dovremmo parlare di vino prodotto secondo natura, nel rispetto di quest’ultima.

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Il produttore marchigiano Riccardo Baldi

Andiamoci piano però. Questa è una di quelle risposte che, se fossimo a Chi vuol essere milionario varrebbe almeno 30 mila euro di montepremi, o anche 70 mila. Quindi che si fa? Meglio chiedere l’aiuto da casa. Anzi dalla cantina. A rispondere al telefono è Riccardo Baldi, classe 1990, giovane ma già acclamato produttore di Verdicchio dei Castelli di Jesi. La sua azienda si chiama La Staffa e si trova a Staffolo, il “balcone della Vallesina” in provincia di Ancona.

La buona notizia è che non abbiamo solo 30 secondi per farci dire che cos’è il vino naturale da Riccardo prima che cada la linea. La cattiva notizia è che non c’è una risposta giusta o almeno univoca a questa domanda. “In Italia il movimento del vino naturale è sorto intorno agli anni Duemila come forma di protesta contro la progressiva omologazione della produzione vinicola durante il decennio precedente. Negli anni Novanta, infatti, l’utilizzo eccessivo della tecnologia e della chimica aveva portato a un appiattimento delle differenze tra i vini dei piccoli vignaioli e quelli delle grandi aziende impegnate su scala industriale. Da qui la nascita di alcune associazioni e fiere-mercato, penso per esempio a ViniVeri Cerea, VinNatur e Vini di Vignaioli. I viticoltori interessati al tema hanno iniziato a incontrarsi e confrontarsi, dando vita a manifesti e creando dei protocolli inteni. Io stesso ho preso parte a queste manifestazioni ed è stato molto utile per la mia formazione”.

Con il tempo, le voci si sono moltiplicate e così anche le posizioni estreme. I cosiddetti talebani del vino naturale. La mancanza di una legislazione ufficiale in materia (tutt’oggi assente nel nostro Paese) ha fatto il resto. “Come in tutte le cose, la verità sta nel mezzo. Non bisogna eccedere con la tecnica, ma nemmeno con la non-tecnica. Altrimenti si producono vini che “puzzano”, scomposti sia al naso che in bocca, con un’acidità volatile che dà quel sentore molto simile all’aceto…”.

Tu come ti sei regolato? “Più che di vino naturale, preferisco parlare di vino artigianale, in cui la mano dell’uomo resta centrale in tutte le operazioni, sia in vigna che in cantina. Per me il vino è l’espressione del territorio in cui nasce”. Il cosiddetto genius loci. O ancora meglio il terroir, per dirla alla francese. Un termine che indica le caratteristiche del suolo, del clima, ma anche gli aspetti umani, la storia e la tradizione che quel luogo racchiude e restituisce nel bicchiere. La migliore interpretazione di terroir resta quella di Slow Wine.

Forse allora l’espressione vino naturale può essere intesa come vino figlio dell’ambiente (e quindi della natura circostante) in cui l’uva cresce. Ma come si traduce concretamente tutto questo? “In primis con una serie di scelte in vigna, ad esempio quella di seguire i principi della viticoltura biologica, escludendo l’uso di prodotti chimici di sintesi in favore di concimi organici. E ancora utilizzando il sovescio e impiegando rame, zolfo e insetticidi naturali per la difesa dai parassiti”. Le viti ringraziano, vegetando meglio e producendo grappoli più sani.

E in cantina? “La fermentazione (ossia la trasformazione degli zuccheri contenuti nel mosto in alcol e anidride carbonica) avviene spontaneamente grazie ai lieviti indigeni o autoctoni, naturalmente presenti sulle uve. Anche questo secondo va in direzione dell’identità territoriale del vino. Oggi, invece, la maggior parte delle aziende sceglie di aggiungere al mosto lieviti selezionati, prodotti industrialmente, perché rendono più facile la gestione dell’iter produttivo”.

Poi Riccardo tocca un altro tema caldissimo, di nome e di fatto: quello del controllo della temperatura durante la vinificazione. Il dibattito è ancora acceso. “Io personalmente lo vedo come uno strumento utile. Produco Verdicchio e si sa che le uve a bacca bianca sono le più delicate. Se durante la fermentazione si superano i 25°C si si perde gran parte dell’aromaticità. E questo significa ridurre la tipicità del vino stesso, che è proprio ciò che invece io cerco di esaltare!”.

Se volete farvi un’idea più precisa di come lavora Riccardo Baldi, non vi resta che andarlo a trovare in azienda o recuperare una delle sue bottiglie. Per un primo approccio meglio partire dal La Staffa, Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Doc: beverino, fresco, piacevolmente sapido.E poi c’è la La Rincrocca, Verdicchio dei Castelli di Jesi Riserca Classico Docg che nasce da un unico appezzamento impiantato nel lontano 1972. Proprio come gallina vecchia fa buon brodo, vigna vecchia fa buon vino. Qui il grande bianco marchigiano esprime tutta la sua classe affinata nel tempo.

Jessica Bordoni

Milanese giramondo, giornalista professionista dal 2015. Scrive di food&wine su varie testate, tra cui Civiltà del bere, Il Giornale e Le Guide di Repubblica.